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Pietrantonio De Gregorio,
uno dei promotori delle occupazioni delle terre nel 1848

 

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Risorgimento
I De Gregorio: un 48 a Laurino
Don Pietrantonio, Don Biagio e Giuseppe Nicola De Gregorio

di Cosmo Schiavo

Stava succedendo proprio un quarantotto, a Laurino, nell’anno del Signore milleottocentoquarantotto. Don Biagio De Gregorio, medico chirurgo, ma, di fatto, cerusico, acceso liberale, seguiva con apprensione i movimenti degli scauzúni, gli insorti cilentani guidati da Leonino Vinciprova, un dispregiativo ironico, coniato dai benestanti filoborbonici e dagli agiati benpensanti, per indicare persone di miserrime condizioni che non potevano permettersi neppure un paio di scarpe.
Ritenne che il momento fosse giunto: vi erano tutte le condizioni favorevoli ad un’insurrezione di popolo. Centinaia di contadini avevano iniziato a disboscare La Macchia d’Ognissanti, proprietà dell’omonima chiesa. Altro che bulldozer, una strage: abbattuti 344 cerri di anni 30, 2818 di anni 20, 564 faggi di anni 25, 1470 aceri di anni 18, 321 ontani di anni 20, di circonferenza variante da uno a tre metri. 11.808 alberi abbattuti, una furia. Il valore del danno quantificato enorme, ma ancora di più il valore del legno, anch’esso quantificato. Faceva i conti l’abate, don Vincenzo Sangiovanni, incazzatissimo, davanti al focone.

A Gennaio il tentativo insurrezionale era fallito.
Era anche riuscito, don Biagio, a far fortificare dentro le possenti mura del paese gli insorti, mentre le truppe regie si stavano avvicinando. Anzi aveva organizzato un conciliabolo in casa di don Francesco Pesce.
Riuscì a convincere i “galantuomini”, ad invitarli a ristorarsi. Era presente pure don Filippo Magliani, il povero Sindaco che, quando capì il tranello, pensò bene di fuggire dal paese per farvi ritorno dopo tre giorni.
Le cose andarono, poi, come andarono.
Tradimenti interni indussero gli insorti ad abbandonare il paese, mentre le truppe del colonnello Lahalle lo cingevano d’assedio.
Fu quella che chiamarono la “battaglia di Laurino”, tra il 30 e il 31 gennaio.
Poca cosa: due soli morti, pare, di Agropoli. Incassò il colpo don Biagio, un tipo certo sanguigno, se era stato designato anche Capo della Guardia Nazionale, dopo che gli era stata assegnata la condotta medica.

Non potè sottrarsi all’arresto, ma si difese da par suo:

- Potevo fare ben poco, Signor Giudice! Non erano fondi di proprietà comunale. Seguii il popolo per mantenere il buon ordine. Del resto avevo ricevuto l’incarico proprio dal Sindaco.

- Ma qui… qui… i testimoni affermano che lei è stata la mina del paese qual esaltato liberale!

- Falso! Manovrati e prezzolati… da don Francesco Ippoliti, sostituto Cancelliere del Giudicato Regio.

- E perché, perché… dica il perché!

- E’ una triste storia, Signor Giudice. Dovete sapere che don Francesco aveva un figlio, un bravo giovane, ma affetto da tisi. Non si rassegnò e attribuì a me, che lo curavo, la causa della morte. Mi minacciò di rovinarmi, in quanto la sua carica gli permetteva di maneggiare a suo modo tutti gli affari di giustizia.

Don Francesco Pesce, don Vincenzo Gaudiani, lo stesso don Filippo Magliani confermano che in altre occasioni, sebbene fossero noti i suoi sentimenti liberali, si era adoperato con ogni mezzo per evitare sforestamenti.
Forse se la fecero addosso, ma erano testimonianze che contavano.
In ogni caso il tribunale non potè non prendere atto che tutti erano d’accordo nel ritenere che la ragione per cui il popolo andò a sforestare le Macchie d’Ognissanti, parte della Commissione Diocesana, zone del Monte dei Cavalli e le sottostanti terre in pendio, fosse quella di seminare grano per procurarsi il pane e, così, sostenersi.
E, poi, i testimoni non potevano essere prezzolati perché don Biagio viveva miseramente e traeva miseri profitti dalla sua professione.
Insomma don Biagio riuscì a cavarsela.

Che pensate, che se ne stesse buono buono per lo scampato pericolo? Macchè! Ai primi di marzo riunì in chiesa tutta la forma armata.

Te Deum laudamus,
Te Dominum confitemur.
Te Aeternum patrem omnis terra veneratur.

Ve le immaginate le buone guardie costrette a cantare il Te Deum ordinato per la Costituzione accordata da Ferdinando II ? E, alla fine, il Capo che arringa, in un magnifico discorso, incoraggiando all’ubbidienza, al Re, alla Costituzione e, ovviamente, a Pio IX.
Ma il 27 gennaio precedente lo avevano visto, quatto quatto, mettere un lenzuolo bianco ad una delle finestre della sua abitazione, andando poi incontro di persona ai rivoltosi tra i quali vi erano i figli Francesco e Giuseppe, entrati dalla porta della Vergine della Scordata, rafforzata, sapientemente, da un drappello fidato di Guardia urbana. Dispose sentinelle e drappelli armati dappertutto, organizzò trincee tra le rocce del paese per resistere alla truppa regia; chiese asilo per i rivoltosi a don Girolamo Perelli.
Ai principi d’aprile sciolse ogni indugio. Armato di carabina, raccoglie intorno a sé una gran quantità di popolo sulla pubblica piazza, l’arringa perché lo segua a dissodare le tenute boschive della Macchia d’Ognissanti, per poi dividerle tra i dissodatori e renderle a coltura.
-Le leggi sono cambiate! Questo è il momento di fare pane! –
Si pone alla testa di quel popolo e si dirige sullo spiazzo detto di S.Rocco, ove raccoglie circa 200 persone armate di fucili, zappe, pali e scuri per portarsi nelle Macchie d’Ognissanti, nel bosco della Diocesana, a Vesolo, nelle Coste di Valle Soprana e Sottana e in altri territori boscosi.


Giuseppe Nicola De Gregorio

Dissodato e diviso il terreno, ne tiene per sé e per i cognati, Agostino e Andrea Monaco, contadini, una porzione; ritorna in paese verso sera, a cavallo, alla testa del popolo. Sembrava Garibaldi!
Furono tutti incriminati per organizzazione di banda armata per distruggere e dividere le proprietà pubbliche.
Anche don Giovanni Marino e don Pietro De Gregorio, altro figlio di don Biagio, sacerdoti d’Ognissanti, che animarono l’operazione.

La popolazione tutta spontaneamente si mosse al solo fine di assicurarsi un pane e vi fu spinta dalla miseria che l’opprime, testimonia Gabriele Durante, di anni 47, guardaboschi;
...la voce dell’intero popolo sorgeva, cioè quella di essere il patrimonio comunale proprietà del popolo, e che questo aveva bisogno di pane, Gaetano Altosinno, di anni 46, anch’egli guardiaboschi;

I “galantuomini” preferirono non andare a testimoniare: don Vincenzo Gaudiani aveva un foruncolo nelle parti del sedere; don Francesco Pesce, colpito da un attacco di podagra; altri si mantennero sulle generali, sostenendo di aver udito per voce pubblica che una gran parte della popolazione…, primo fra tutti il Sindaco, don Filippo Magliani.
Mah! Ci fu un casino del demonio. Questo è sicuro! Molti verbali di sopralluogo degli avvenuti disboscamenti sono firmati dal decurione delegato, anziché dal Sindaco, per l’occasione indisposto.
I figli di don Biagio, Francesco e Giuseppe Antonio, Giuseppe Nicola De Gregorio di Gaetano, Agostino e Andrea Monaco, cognati di don Biagio, don Nicola De Gregorio di Gennaro, Pasquale De Gregorio di Diego, don Girolamo Consalvo di Giovanni furono imputati dalla Gran Corte Criminale per attentato contro la sicurezza interna dello Stato, avente per oggetto di cambiare il Governo, ed eccitare i sudditi contro l’autorità reale e tradotti in detenzione.
Furono condannati ad 8 mesi di reclusione e al pagamento delle spese di giudizio, pena confermata in appello il 18/9/1849. Don Biagio aveva subito ben più severa pena. Fu messo in libertà solo dopo il 27/7/1852, quando verrà abolito dalla stessa Gran Corte il procedimento penale.
Viva la libertà, viva l’Italia, viva la Francia! avrà esclamato uscendo dal carcere, proprio come aveva fatto nella piazza di Laurino, il primo novembre del ’48, insieme con gli amici ornati di nastro tricolore, invocando addirittura la Repubblica.
Secondo me, tra gli altri, se la videro brutta don Francesco Ippoliti, la famiglia Magliani che gli era nemica per gelosia di professione medica, don Francesco Pesce, suocero di don Filippo Magliani, che pretendeva che don Biagio rinunciasse alla condotta medica in favore del figlio Gherardo, nominato solo primo tenente della Guardia, don Luigi Pagano, cassiere comunale, che ritardava sempre il compenso dovuto, che con ogni probabilità era indispensabile per vivere.
Don Biagio non era iscritto nei registri pubblici dei contribuenti, non possedeva beni, né fabbricati, non era  trafficante, mercadante e molto meno Maestro d’arte alcuna.
Si sosteneva con i compensi che gli erano offerti per la sua professione di cerusico. Chissà a chi si affidarono per qualche estirpazione di un molare.

Tutti dimenticati i De Gregorio- mi disse, senza ombra di rancore, donn’Emma, la Maestra venerata di un popolo, uno scricciolo.
Che persona! Le carezzai l’esile mano che mi tese, fiera, in nobile gesto d’amore.

Nota:
Tutte le citazioni sono tratte dal dibattimento presso la Gran Corte Criminale. I riferimenti sono nel mio primo libro su Laurino Proprietà, lavoro e potere nel corso dell'Ottocento. Indagine su un paese campione del Cilento: Laurino. Galzerano Editore

Pietrantonio dovrebbe essere il don Pietro , abate di Ognissanti, distinto sacerdote (Pecori, 1994, p.97) ancora vivente alla fine dell''800. Se è così, possiamo trarne alcune conclusioni: il giovane "rivoluzionario" diventò, poi, abate di Ognissanti; ripassò ad olio il ritratto del fratello in tarda età.
La foto originaria potrebbe essere stata ritoccata.
Da chi se non dal mitico Arioppa?

La battaglia di Laurino su laurino.info

Si ringrazia Cosmo Schiavo per l'articolo e per aver messo a disposizione le fonti.

 


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