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Una piantina del 1710
Santa Maria di Vito a Fogna
di Cosmo Schiavo

La piantina, redatta nel 1710, inedita, rappresenta il Feudo di Santa Maria di Vito nel casale di Fogna ( o Fonga), l’attuale Villa Littorio, territorio di Laurino  1. Ancora oggi la località è conosciuta come Vito, prospiciente il territorio di Bellosguardo. Sulla sinistra della prima strada vi è l’articolato complesso architettonico della Grancia di Santa Maria di Vito dei padri basiliani.
Si nota la chiesa, triabsidata; il caseggiato per gli alloggi dei monaci, il porticato che fungeva verosimilmente anche da deposito. E’ chiaramente visibile, nella parte anteriore, il manufatto circolare, contornato da pietre. Dovrebbe essere o un’aia o,  addirittura, un pozzo-cisterna  2. Un po’ più sotto, con ogni probabilità, un piccolo vigneto ad alberello con un casino per gli utensili.
Nella parte retrostante è appena accennata un’altra costruzione ; a metà strada ancora un’altra della stessa tipologia; nella parte superiore un’ aia, con i covoni, collegata, mediante un viottolo, alla strada principale. L’uliveto insiste nella parte superiore, contornato dalle zone seminate;
ai lati il frumento; gli alberi sparsi, quasi sicuramente da frutto. Il sistema d’irrigazione è perfetto. Si notano rigagnoli che convergono verso le zone seminate.
Tutto il perimetro è percorso da canali di convoglio di acque che scorrevano a valle. Tali acque, come in altre piantine presenti nei documenti consultati, probabilmente confluivano in una chiusa a valle, in qualche caso in muratura.

La grància (dall’antico francese granche, “granaio, deposito di grano”)
è il nome dato da alcuni ordini monastici, cistercensi, innanzi tutto, ma anche camaldolesi e certosini, alle loro fattorie, affidate ai conversi, vere e proprie aziende rurali, dotate di cortili, abitazioni, stalle, magazzini, officine, una piccola cappella, per ricordarne l’origine religiosa. Se in una grància per così dire “normanna” è presente un complesso religioso/monastico di una certa importanza, quasi sicuramente è preesistente alla funzione propria della grància stessa.

Tale era la grància ai tempi di Ruggiero II, re della Sicilia insulare e peninsulare (Mileto, 1095- Palermo, 1154), il quale, attraverso un privilegio (Crisobollo, marchiato con bollo aureo regale  3) rilasciato a Palermo nell’aprile del 1131, conferma all’abate Leonzio, dell’Abbazia italo-greca di Grottaferrata, i beni già concessi da suo cugino Ruggero Borsa (1060/61-1111), figlio di Roberto il Guiscardo e di Sichelgaita di Salerno, e da suo figlio Guglielmo - II di Puglia - (1095-1127), tra i quali l’importante cenobio di Santa Maria di Rofrano, con le sue dipendenze (11), tra le quali la nostra grància. La fondazione è posta tra l’VIII ed il IX secolo  4.

Prima dell’arrivo dei transalpini normanni, come altrove, il complesso monastico laurinese, non ancora “grància”, era una vera e propria abbazia  5, cioè una comunità religiosa autonoma, diretta da un abate, crocevia di un percorso spirituale, ma anche commerciale, fondato su un’economia curtense non a fine di lucro.

I beni di Rofrano sono alienati dal secondo abate commendatario, Cardinale Giuliano della Rovere , l’11/1/1476, a favore del giurista e diplomatico napolitano Anello Arcamone, finchè, dopo l’acquisto da parte di altri feudatari, nel 1490 sono concessi dal re Ferdinando II a Giovanni Carafa, conte di Policastro  6. In tale periodo i religiosi sono espulsi dai Carafa, trovando rifugio nel monastero di San Pietro al Tomusso di Montesano, a sua volta dipendente dalla grande abbazia tuscolana, sotto la cui cura passa anche la nostra grància fino al 1709, con la presenza di un monaco per il mantenimento del culto e per l’amministrazione dei beni, accresciuti con l’aggregazione del bosco di Vito (600 tomoli  7; rendita in fitto di 600 ducati annui  8). Dopo il susseguirsi di altri feudatari ed intricate contese amministrativo/giudiziarie, nel 1710 sembra rientrare in possesso dell’Abbazia di S.Nilo in Grottaferrata, che promuove una compilazione di un inventario di tutti i beni esistenti sul territorio  9.
Nel 1728 è venduta, insieme con le altre proprietà (Montesano, Sassano, Diano, Policastro), per complessivi 16.000 ducati di Regno, ai Certosini del monastero di san Lorenzo di Padula, che vi mantenevano un monaco granciere che curava gli aspetti economici e finanziari, ma, quasi sicuramente, non più quelli religiosi  10.
I certosini di Padula possedevano, fin dal 1308, un fabbricato adibito a grància (anch’essa di San Lorenzo) con chiesetta ( ridotta a magazzino del comune) proprio al centro del paese, donato da Tommaso Sanseverino, conte di Marsico e signore del Vallo di Diano e Cilento, insomma il fondatore della Certosa di Padula, proprio all’imponente cenobio. L’intero complesso è, poi, demolito nel 1887 per costruirvi la Casa municipale e le scuole  11.

Nel 1803 la badia rofranese diviene di nomina regia. Soppressi gli ordini monastici nel 1806 da Giuseppe Bonaparte, la grància e i beni di Santa Maria di Vito, ma anche la piccola grancia certosina al centro del paese, passano al Regio Demanio e, per grazia speciale del re, sono donati all’Abbazia di Santa Maria di Rofrano, rappresentata dall’abate canonico Gaetano Passarelli di Vallo, che, nel 1814, è incaricato di liquidarne i beni. Reintegrati, però, nel 1819, i certosini di Padula ne rivendicano la metà delle rendite. Oramai in rovina, la chiesa è interdetta. Con decreto 29/7/1822 i beni sono restituiti e passano sotto l’amministrazione della commissione diocesana di Capaccio.

Il toponimo

Il toponimo Vito  12 rimanda al gotico wido, attraverso il francone wito, tratto dal termine widu, usato dalla gente longobarda per indicare un bosco, luogo sacro, una foresta, ma anche il legno  13. Quindi Santa Maria di Vito altro non dovrebbe essere se non Santa Maria del bosco, qualche volta del boschetto, appellativo di tante abbazie, chiese e cappelle erette dai Normanni su precedenti insediamenti bizantini, nelle quali si venerava la Theodòkos (Madre di Dio), la Gloriosa, alle volte nella postura della Kyriotissa (seduta in trono). Bosco in provenzale è boscs; il francese bouquet (anticamente boschet, boschetto) è, come si sa, un mazzetto di fiori, ma anche cespuglio o macchia cespugliosa.

Indicativo è l’esempio del Santuario della Madonna del bosco di Montemilone, il santuario della “Gloriosa”, in provincia di Potenza, tra i primi sorti in Basilicata. Nella piccola chiesa, in stile romanico, con pianta e tipologia classica orientale, triabsidata, distante un paio di chilometri dal centro abitato, nella cosiddetta valle dei Greci, si venera la statua lignea policroma del XII sec. di Maria Gloriosa del bosco. La Madonna, seduta in trono ( Kyriotissa, “che assisa in trono porta il Signore”), con il Bambino sulla sinistra, benedicente, con l’indice ed il medio aperti, chiuse le altre dita, coronata, come il figlio, che regge nella mano sinistra il vangelo, rappresenta un classico dell’iconografia bizantina. Altra statua lignea si venera nel santuario di Santa Maria del bosco (o della torre) nei pressi di Serra San Bruno, fondato nel 1091 proprio da San Bruno nella contrada detta La Torre donatagli da Ruggero II d’Altavilla. Altre Santa Maria del bosco a Catalamauro di Contessa Entellina, Palermo; a Podàrgoni, Reggio Calabria; ad Alì, Messina; a Paupisi, Benevento; a Castelmezzano, Potenza. A Castelvenere (Benevento) vi è Santa Maria della foresta (forêt in francese), chiesa di origine bizantina presso la quale la tradizione vuole che si sia formato San Barbato, il vescovo beneventano che convertì il duca Romulado e la principessa Teodorata al cristianesimo, patrono,tra l’altro, de li piroti (“gli epiroti”) di Valle dell’Angelo. La Madonna, dipinta su tavola, è una Thetòkos (Madre di Dio). A Bosco, attuale frazione di San Giovanni a Piro (ab Epiro), il casale nasce intorno alla Badia italo-greca di San Nicola del bosco.

Roccagloriosa, ricca di storia, incastonata nella valle tra il Mingardo e il Bussento, ha in sé il nome della “Gloriosa”, Rocca de Gloriosa, rocca della “Gloriosa”, castrum Rocce de Gloriosa, cioè Santa Maria greca, venerata, secondo il rito orientale, nella cappella di Santa Maria Gloriosa, in arce Roccae, nel casale Rocchetta, sulla cima più alta. E poi la chiesa, anch’essa greca di Santa Maria dei martiri e le tante cappelle dedicate alla “Gloriosa” con appellativi diversificati: Santa Maria della pietà, Santa Maria de Castro, Santa Maria dell’Arco, Santa Maria delle grazie etc.  14

Non possediamo alcun documento che possa confermare l’ipotesi. In storiografia più indizi non costituiscono una prova. Tuttavia che altro può essere Santa Maria di Vito, cioè Santa Maria del bosco, se non la Theodòkos Kyriotissa, la regale Gloriosa Madre di Dio in trono?

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1 ASS (Archivio di Stato di Salerno), Corporazioni religiose, B. 15, vol.1, foglio 233 r. Il volume, elegantemente rilegato in cuoio marocchino, con ganci di chiusura, contiene le platee dei beni che l’Abbazia greca di S.Nilo (detta anche di S.Maria) in Grottaferrata possedeva nel territorio. All’epoca della compilazione (1710) la grància era stata aggregata al monastero di S.Pietro di Montesano, il cui procuratore, d. Nilo Marangi, nel 1709, chiese alle autorità governative ed ecclesiastiche l’assenso per la compilazione di una nuova platea dei beni dipendenti dal monastero di S.Pietro, che risultava ancora grancia della grande abbazia italo-greca di S.Maria di Grottaferrata (v.P.EBNER, op.cit., II, p.195). Al foglio 241 v. vi è una lettera dell’Abate di Grottaferrata con raffinato sigillo a secco; …l’agronomo Collarelli dichiarò di aver disegnato la pianta, i beni erano costituiti da più arborati (tomola 19,4), da un terreno lavorativo (tomola due) e da una casa (v. P.EBNER, Chiesa, baroni e popolo nel Cilento, II, Edizioni di storia e letteratura, 1982, Roma, p.30). La “casa” citata dovrebbe essere quella del complesso abbaziale, ridotta, probabilmente, già a quell’epoca, a parziale casa colonica. Al foglio 3 v. del citato documento Fogna è detta casalis funearum;

2 L’esempio più vicino è quello della cisterna del chiostro occidentale dell’Abbazia di San Michele di Montescaglioso (PZ).

3 V. E. FOLLIERI, Il Crisobollo di Ruggero II per la Badia di Grottaferrata, “Bollettino della Badia greca di Grottaferrata”, n.s. 42/1988, pp.49-82. L’originale greco fu fatto tradurre in latino dal primo Commendatario dell’Abbazia, il Cardinal Basilio Bessarione
[v. M.T. CACIORGNA (a cura di), Santa Maria di Grottaferrata e il cardinale Bessarione, Fonti e studi sulla prima commenda, Istituto nazionale di Studi Romani, Roma, 2005];

4 v. D. RONSINI, Cenni storici sul comune di Rofrano, Stabilimento tipografico nazionale di Salerno, Salerno, 1873. L’erudito canonico delinea gli stretti rapporti di Rofrano con l’Abbazia fondata da San Nilo (1004), elencando le famiglie che governarono il feudo, dopo che, nel 1583, passò alla diocesi di Capaccio. Tanto intensi erano tali rapporti che fin dal 1187 la chiesa abbaziale si fregiò del titolo di Santa Maria di Grottaferrata di Rofrano;

5 Venerabile Abbazia di Santa Maria di Vito di Fogna, così in ASS, B.15, vol.1, foglio 223 r.. L’Abbazia possedeva beni anche al di fuori del feudo (v. ASS, B.15, vol.1, foglio 228 r.;);

6 Le intricate vicende amministrative e i nomi dei vari feudatari si possono leggere in P. EBNER, op.cit., pp.431-438;

7 L’estensione del tomolo varia da zona a zona in tutt’Italia. Dovrebbe corrispondere complessivamente a c/a 107 ettari, cioè a 1070 mq.;

8 I dati sono riportati da G. PECORI, Laurino e l’omonimo Stato - Notizie e monumenti -, Ed. Centro di Promozione Culturale per il Cilento, Acciaroli SA), 1994, p.154, copia dattiloscritta, conservata presso la Biblioteca provinciale di Salerno, dell’originale manoscritto del 1890, dati poi ripresi dall’Ebner (op.cit., II, pp.30-31), insieme con altre notizie sull’Abbazia.

È difficile stabilire il valore del ducato napoletano rapportato ai giorni d’oggi. Esemplificando, un casa palaziata con giardino, cioè con un piano superiore, di buon livello, in Calabria, fra il ‘600 e il ‘700, valeva tra i 70 e i 100 ducati; il valore di una pecora era, più o meno, di un ducato;

9 v. P. EBNER, op.cit., I, pp.157-160;

10 v.G. FALCONE, L’archivio della Badia greca di Grottaferrata, in Pubblicazioni degli archivi di Stato, Saggi 62, La memoria silenziosa, Formazione, tutela e status giuridico degli archivi monastici nei monumenti nazionali - Atti del convegno -, Veroli, Abbazia di Casamari, 6-7/11/ 1998 – Ferentino, Palazzo comunale, 8/11/1998, Ministero per i beni e le attività culturali – Ufficio centrale per i beni archivistici, 2000, pp. 208-232; E. FOLLIERI, Byzantina e Italograeca, Studi di filologia e di paleografia, Ed. di Storia e Letteratura, Roma, 1997; AMNG (Archivio Monumento Nazionale Grottaferrata), Archivio monastico, Platee, n°3 (1576) e n°4 (1628);

11 v. G. PECORI, op.cit., p.154. Una nota sull’ Abbazia seu Grancia di S.Maria di Vito è alle pp.144-145;

12 È presente a Chiaromonte (PZ), S.Severino Lucano (PZ), Cerignola (FG), Reggio Calabria (Vito inferiore e superiore nella contrada Feo (Feudo) di Vito, Vito d’Asio (PN), Vit in friulano (attestato fin dal 1281), alle falde del monte Asio, ricco di selve, territorio d’insediamento longobardo per la presenza di chiese dedicate a San Michele Arcangelo e a S.Maria ad nives, Vito di San Filippo di Pellaro (RC), Vito Mero di Lizzano (TA), per citarne alcuni. Significativi, ai fini della validità della proposta etimologica, Vito d’Orcia a Castigliane d’Orcia (SI) e, soprattutto, Vito Carpine a Laterza (TA), cioè il bosco che gravita lungo il fiume Orcia e il bosco di carpini. In una pergamena dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria (Perg.318 – 7/9/1626, Reggio) è concesso in uso enfiteutico un pezzo di terra arborata in contrada (sic) Vito gravata di un peso di undici aquile nei confronti della Chiesa di Chanzerina (Genseria). In qualche caso il toponimo è stato, successivamente, anche, per così dire, santificato, per cui si registra sia una contrada Vito che una via S.Vito;

13 Poco sappiamo, e in via mediata, della lingua longobarda. I Longobardi erano un popolo di terra, legato alla terra e ai suoi simboli (il noce, l’albero sacro etc.). Proprio per questo il lessico che definiva qualcosa legato alla terra aveva una gamma d’espressione molto varia ed articolata. Per esempio nel friulano sono diffusi toponimi e relativi cognomi derivanti da witha e with(mann), che designavano la bandita, cioè il bosco comunale e il relativo custode. Nelle varie traslitterazioni delle lingue neolatine riscontriamo Vizza, Guizza, Guizzo(manno), Chizzo, Vizzo, Bit e, perché no, anche il nostro Del Gizzo laurinese. La nota acqua minerale della fonte “Guizza” non è altro se non l’acqua che sgorga da una sorgente di un bosco. Il bosco era chiamato anche wald, che, tuttavia, designa “un aggregato di beni di diversa natura (pascolo, boschi, zone incolte) talora costituenti una entità economica e amministrativa (galda) (v. G. PRINCI BRACCINI, Germanesimi editi e inediti nel Cartulario di S.Benedetto di Conversano (901-1265), Quaderni del Dipartimento di Linguistica – Università di Firenze , 10(2000), p.17). I toponimi derivati sono Gualdo Tadino, Monte Gualdo, Gualdo di Narni (Terni) etc. Nell’alto veneto il latino medievale viza, nella forma vitha a Cibiana di Cadore (Belluno), è il bosco collettivo, protetto, rigoglioso, con taglio controllato delle piante (v. P.BARBIERATO - M.T. VIGOLO, Riflessi lessicali e toponomastici degli istituti giuridici comunitaridi età medievale, in Studi Mediolatini e Volgari, LIV, 2008, pp.5-36). Whida/Weida, nell’attuale tedesco Weide, è il pascolo; weidenland il terreno privato. Da widu, attraverso Widbald, deriva il cognome Guidobaldo; da Guy (Guido in francese, pronunzia Ghi) deriva Ghibaudo (v. il mio Guido, il vischio e lu viscigliu sul blog di Laurino.info). Altro termine ancora che designa, in una qualche accezione il bosco, è busk/busch. Lo stesso nome Vito potrebbe derivare non dal latino vita, nel senso della vita eterna, ma proprio da wido/wito/widu, per cui gli appellativi Vito e Guido rappresenterebbero la stessa persona, come, per esempio, per l’abbazia westfaliana di Corvey, il più antico centro di culto di S.Vito (o S.Guido);

14 v. P. EBNER, op.cit., II, pp.414-426;

 

 



 

 

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